L’Europa ha il vizio di non veder mai partire il gioco, la palla, la scintilla. Ha questo piglio da Vispa Teresa stampato sul volto, come quello della commissaria che presenta lo stupidissimo kit della sopravvivenza. O come quello della von der Leyen quando parla dei dazi americani: «Reagiremo», ha dichiarato. E come? Facendo la guerra alle Big Tech, colpevoli di pagare poche tasse e di voler avere mano libera sulla profilazione dei cittadini.

Cribbio - avrebbe detto il Silvio - la signora Ursula si è accorta adesso che le Big Tech eludono il fisco? Beh, sorprendente visto che la cosa avviene sotto gli occhi di Bruxelles da sempre tanto da poter affermare che l’eurozona è un grande spazio di generosità fiscale a uso e consumo di Big tech e non solo. Dal Lussemburgo all’Irlanda, dall’Olanda a Malta, l’Europa è una piattaforma di agevolazioni fiscali degne dei migliori Paradisi.

Pertanto è sorprendente che la von der Leyen pensi di usare questa leva come pistola sul tavolo: sarebbe assai scarica nel senso che in Europa l’asse del nord - i cosiddetti falchi - non hanno la minima intenzione di smontare l’intelaiatura elusiva/evasiva su cui si reggono le economie di certi Paesi. Del resto quando scoppiò il caso LuxLeaks a Bruxelles non si scomposero più di tanto: presero l’allora presidente del Lussemburgo Jean-Claude Juncker e lo elessero presidente della Commissione europea. Quello di prima di lui, il portoghese Barroso, terminato l’incarico passò alla vicepresidenza di Goldman Sachs. L’Europa ancora una volta, dunque, non ha visto partire la questione. Potevamo prevedere i dazi di Trump? Certo che sì; intanto perché erano abbondantemente annunciati e poi perché il presidente americano si sta muovendo in linea con quell’American First mantra della sua campagna elettorale: dare forza alla manifattura, non dipendere dalla Cina e riequilibrare deficit commerciale e dollaro troppo forte.

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L’American First non è solo slogan di un rinnovato sogno, è il paradigma di un qualcosa di più complesso e finanche di più incandescente se si verificassero le preoccupazioni dei vertici militari e strategici americani: le tensioni con la Cina. La Casa Bianca si sta muovendo per riallineare gli States rispetto ai danni di una globalizzazione che è fallita e sta finendo. Trump agisce sul campo, anche a costo di muovere una guerra commerciale quali sono i dazi, sapendo che come ogni guerra anche chi la ingaggia conterà i suoi danni. Allora la domanda è: perché si sta muovendo così pesantemente? Davvero pensa di scardinare la globalizzazione ripristinando una primordiale autarchia? Forse lo scenario è più complesso e vede, appunto, nella Cina un pericoloso competitor nato proprio sulle contraddizioni della globalizzazione. Rana Foroohar, vicedirettrice del Financial Times e firma economica di punta, ha scritto un libro interessantissimo, La Globalizzazione è finita dove spiega cosa non ha funzionato. Non è un libro per capire la rotta di Trump (anzi, siamo lontani dal minimo sostegno della Foroohar per il presidente Usa); è piuttosto un libro per capire la mappa su cui si muovono lui e gli altri.

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La globalizzazione - scrive la Foroohar - ha fallito perché nel delirio neoliberista ha glorificato pochi players (dalle Big Tech alle Big Four), ha generato il mostro cinese con l’ingresso nel Wto (un ingresso facilitato da regole mai più modificate!) ed è finita perché ha travolto il ceto medio. Ora bisogna fare i conti con le macerie e i meccanismi distorti. Tra i quali c’è allungamento delle catene di approvvigionamento industriale, sbilanciato nei mercati emergenti quello cinese in primis. L’America non può dipendere dalla Cina, né nelle materie prime, né nella green economy, né nei traffici marittimi. L’Europa ci ha mai pensato?

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